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Testi sulla vita di San Cataldo: Cataldo Antonio Cassinelli - AD 1718 Prof. Enzo Farinella - AD 2002
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La Leggenda Agiografica di San Cataldo di Alberto Carducci tratto da: “La Cattedrale di San Cataldo” di Patrizia De Luca, Scorpione Editrice, 1997
La leggenda medievale di san Cataldo, antico vescovo e patrono della città di Taranto, è caratterizzata da un singolare dinamismo agiografico che non si è mai arrestato nel corso dei secoli, anche se – dopo le riforme tridentine e le riserve degli iluministi – esso appare ormai finalizzato al recupero dell’antica tradizione locale che ha identificato il Vir Dei con un improbabile “arcivescovo irlandese” messo a capo della diocesi ionica, dopo un suo pellegrinaggio in Terra santa. Dalla fine del secolo scorso, al fine di conciliare il racconto tarantino con la realtà ecclesiale dell’Hibernia altomedievale, il santo è anche visto dai tradizionalisti come un “abate irlandese” itinerante, divenuto più tardi arcivescovo di Taranto. Accentando la tesi dell’origine irlandese di Cataldus l’autorevole “Bibliotheca sanctorum” (1963) ha escluso la possibilità che il santo sia stato anche arcivescovo in Italia, orientandosi verso la conclusione del semplice pellegrino morto per caso a Taranto e sepolto nella locale cattedrale. Successive indagini storiche hanno però ribaltato il problema cataldiano, confermando l’episcopato tarantino ed escludendo l’origine irlandese del santo vescovo. Infatti, la prima attestazione scritta della leggenda agiografica di san Cataldo pervenutaci – accentrata sul ritrovamento delle sue reliquie – non fornisce alcun riferimento biografico sul personaggio, oltre al nome Cataldus ed alla sua qualifica di antico vescovo locale. La fonte, che è abbastanza tarda (metà del XII secolo), affonda le sue radici nella memoria popolare di un antico culto rurale, preesistente alla dominazione normanna, per un vescovo tarantino di nome Gaidoaldus. E’ questo un antroponimo di origine germanica e di tradizione longobarda, che significa “potente con la lancia” e che nella trasmissione orale, per effetto dei dialetti dell’Italia meridionale, si è lentamente trasformato nel più noto Cataldus. I tentativi di ricondurre questo secondo nome agli antroponimi celtici Cahal e Cathal, attuati già nel XVII secolo dall’agiografo irlandese Giovanni Colgan e ripresi modernamente da altri studiosi, non hanno trovato alcun riscontro sul piano filologico, oltre che documentario. L’esistenza di un culto universale medievale per un vescovo “tarantino” chiamato Cataldus è invece confermata da un numero veramente impressionante di chiese del XII secolo a lui dedicate: i luoghi di culto sono documentati, sia sul piano archelogico che archivistico, in quasi tutta la penisola italiana, entro la linea di demarcazione Genova-Cremona-Mantova-Venezia, e nella totalità della Sicilia, con propaggini culturali a Malta (Mdina) ed in terra santa (Betlemme) e, agli inizi del XIII secolo, anche nella chiesa di santa Sofia a Costantinopoli e nella cattedrale francese di Notre-Dame a Clermont. Il riverbero liturgico di queste antiche chiese cataldiane è dato dai calendari liturgici medievali di quelle zone, che ci hanno tramandato il dies natalis (giorno della morte) del santo vescovo tarantino, fissato ab antiquo al VI idus maii (10 maggio). Sotto la suggestione delle più antiche testimonianze iconografiche di questo santo latino conservate in Sicilia a partire dal XII secolo (Cappella Palatina di Palermo, Duomo di Monreale) ed in terra santa (Basilica della Natività a Betlemme), non pochi studiosi hanno assegnato ai Normanni il merito della diffusione capillare del culto per san Cataldo. Più di recente, però, chi scrive ha ipotizzato per il santo vescovo Cataldus due stratificazioni culturali, entrambe ufficiali ed irradiatesi da Taranto: la prima altomedievale, universale, legata alla cultura rurale longobarda, che ha memorizzato solo il dies natalis dell’uomo di Dio (10 maggio); la seconda, a cavallo del secolo XI, di semplice recupero da parte degli arcivescovi tarantini, i quali hanno rinverdito l’antico culto puntando essenzialmente sul ritrovamento delle ossa cataldiane (donde le locali traslazioni, la costruzione dell’attuale cattedrale tarantina e l’invio delle reliquie in luoghi molto lontani da Taranto) ed accostando alla festa tradizionale del 10 maggio (che da allora è divenuta dies inventionis et translationis) quella più ufficiale del dies canonizationis (8 marzo). I Normanni, allineati alla politica del Papato, dopo il loro insediamento stabile nel Meridione d’Italia ed in Sicilia hanno semplicemente favorito, per ragioni di opportunità, il culto dell’antico vescovo “latino” tra le popolazioni indigene che avevano conservato sotto le dominazioni araba e bizantina usanze e tradizioni longobarde. Subito dopo i Crociati a Betlemme, quindi i Patriarchi latini veneziani a Costantinopoli, infine la Curia romana che ha concesso reliquie di san Cataldo ai cardinali d’oltralpe, hanno ulteriormente allargato il ventaglio culturale per il santo patrono tarantino. Questa ricostruzione trova una prima conferma nella distribuzione topografica ripetitiva delle chiese medievali italiane di san Cataldo, che, salvo isolate eccezioni, sono in genere rurali, a volte rupestri ed ubicate sulla cima di alture (Loca Sanctorum), non di rado lontane dagli abituali canali di diffusione dei culti (vie consolari, commerci, transumanze, ecc.). Alcune di esse erano ormai toponimo oppure abbandonate a metà del XII secolo, cioè nel periodo di massima espansione del culto per il nostro santo, stando alla versione ufficiale fornita più tardi dai testi liturgici dell’Ecclesia tarentina (i più antichi risalgono infatti solo alla prima metà del Quattrocento). Mancano sistematicamente gli atti di fondazione di queste antiche chiese dedicate a san Cataldo: quelle meglio documentate insistevano in un habitat fortemente longobardizzato, come i ducati di Salerno e di Spoleto, ed erano della tipologia “padronale”, al centro di proprietà terriere private più o meno vaste (Eigenkirche), come consuetudine dei Longobardi per motivi fiscali. Di qualcuna di esse abbiamo notizia dalle fonti vaticane o benedettine in quanto furono assorbite, dopo la riforma gregoriana, dai grandi Ordini monastici o dai Capitoli diocesani: lo testimoniano le bolle papali in favore delle chiese di san Cataldo nei pressi di Oria (1173), di Modena (1181) e di Bucchianico (1188) e specialmente i privilegi concessi dall’antico padrone ai contadini che lavoravano le terre dipendenti dalle chiese cataldiane di Aoderada (1161-68) e di Taurasi (1184), più tardi assorbite dall’abbazia benedettina di Cava, il cui archivio è giunto indenne sino ai nostri giorni. Oltre a non essere coeva agli avvenimenti e a non fornirci dettagli biografici sul santo vescovo, la più antica descrizione del ritrovamento delle reliquie di san Cataldo a Taranto (XI secolo) – il misconosciuto Sermo de inventione corporis sancti Kataldi, trascritto nel 1174 in un codice benedettino del monastero di san Severino di Napoli – appare in aperta antitesi con la tradizione ufficiale della Chiesa tarantina elaborata al tempo della formazione delle leggende agiografiche (XII-XIII secolo), che non ebbero finalità storica ma solo di soddisfare la pia curiosità dei fedeli, per cui vennero presto acquisite dai Frati predicatori che giravano per le campagne. Il Sermo avverte infatti che le reliquie dell’antico vescovo Cataldus furono ritrovate da un monaco dal nome longobardo, Atenulfus, in una chiesa rurale nei pressi di un’altura fortificata poco fuori le mura di Taranto e trasferite all’interno di esse per sottrarle ai Normanni, che stavano per assediare la città. La solenne traslazione (= riconoscimento locale di santità) sarebbe avvenuta vincendo la iniziale ostilità del vescovo tarantino del tempo: le reliquie vennero infatti sistemate provvisioramente nella chiesa popolare di san Biagio, al centro della città, e quindi spostate in un apposito tempio innalzato in onore di san Cataldo (l’attuale duomo tarantino), dopo aver rifiutato la sistemazione proposta dal vescovo Gilbertus nella chiesa di santa Maria, la cattedrale altomedievale di Taranto testimoniata in altre antiche fonti e che non sembra coincidere topograficamente con l’attuale. La seconda versione del ritrovamento delle reliquie cataldiane a Taranto nell’XI secolo – difforme da quella tramandata dai Benedettini di Napoli in quanto assegna ogni merito invece al locale arcivescovo – è attestata a Venezia dopo il 1330. L’ha raccolta il frate predicatore Petrus Calo de Clugia (il domenicano Pietro Calo da Chioggia), in quanto san Cataldo, titolare di antichi luoghi di culto nella laguna veneta, non figurava, assieme a molti altri santi, nella celebre raccolta agiografica nota sotto il nome di Legenda aurea compilata nel XIII secolo da un altro frate predicatore, Jacopo da Varazze. Pietro Calo – che per il santo vescovo tarantino sembra dipendere da una historia manoscritta che accompagnava una reliquia del braccio di san Cataldo oggetto di culto alla fine del Duecento nel convento francescano di san Marco di Mantova – avverte che l’antico vescovo tarantino era d origine irlandese e nato a Catandus. Trasferitosi più tardi a Lismor, dove aveva fondato una scuola internazionale, durante la costruzione di una locale chiesa mariana aveva avuto modo di resuscitare due giovanetti morti, per cui era stato fatto arrestare dal re, che aveva sospettato in lui arti magiche. Spaventato in sogno da due angeli, però, il monarca aveva subito liberato Cataldo e gli aveva assegnato il ducato di Malocridus (un nobile morto improvvisamente la stessa notte), tanto vasto che il santo dovette suddividere in dodici episcopati, divenendo di fatto un “arcivescovo irlandese”. Senza fornire alcuna spiegazione sul perchè della presenza di san Cataldo in Italia, il frate predicatore ci ha inoltre tramandato la notizia che al tempo dell’arcivescovo tarantino Dragone (nome corretto, a partire dal 1555 in Drogone), durante la ricostruzione della locale vetusta cattedrale, venne per caso dissotterrato un candido sarcofago di marmo, contenente all’interno delle “antiche” ossa umane, che fu possibile identificare grazie alla presenza di una crocetta aurea che portava inciso il nome del santo “in caratteri latini”. Il sarcofago venne inizialmente sistemato in un loco optimo della nuova cattedrale tarantina, che, stando ad un miracolo avvenuto nel medioevo, sembrerebbe coincidere con l’attuale cripta, che ancora oggi conserva antichi affreschi, tra i quali uno del santo riconducibile agli inizi del XIV secolo. Sempre secondo il Calo, un altro arcivescovo tarantino (Girarculus) avrebbe traslato le ossa di san Cataldo in una cassetta reliquario d’argento il 10 maggio 1051, sistemandole in un luogo digniorem, cioè sull’altare maggiore. Pur con alcune varianti, le notizie cataldiane fornite dal domenicano Pietro Calo sono state riprese tra il 1369 e il 1372 da un altro agiografo veneto, Petrus de Natalibus o Equilinus (il sacerdote secolare Pietro Natali, più tardi vescovo di Jesolo), il cui “Catalogo di santi” ebbe vasta notorietà, per essere stato stampato più volte a partire dalla fine del Quattrocento anche fuori d’Italia. La fonti cataldiane tarantine sono successive a quelle veneziane, risalendo alla prima metà del XV secolo: si tratta di due testi liturgici dell’Ecclesia tarentina che ci hanno tramandato la locale tradizione ufficiale con alcune varianti rispetto a quella veneta:
Nel 1555 la leggenda agiografica di san Cataldo appare “corretta” e dilatata al massimo per opera del sacerdote tarantino Giovan Battista de Algeritiis, il quale avendo individuato nell’archivio arcivescovile il manoscritto di una inedita Historia beati Cataldi, l’aveva pubblicata, integrando le non poche lacune del racconto originario con una serie articolata di brevi note biografiche: viaggi in mare, soggiorno eremitico in Terra santa, ingiunzione divina ad evangelizzare Taranto, omelia prima della morte, scelta del luogo della sepoltura, ritrovamento della lingua incorrotta nel XIV sec., ecc. Alla stessa fonte hanno attinto poco dopo lo storico tarantino Giovanni Giovane e, un secolo più tardi, il gesuita Antonio Beatillo, corrispondente su Taranto dei Bollandisti. A quel tempo, infatti, l’Historia appariva rivestita da una patina di antichità, in quanto nel clima delle riforme post-tridentine il cardinale Sirleto (1580) aveva riformato l’ufficio liturgico medievale di san Cataldo dando un colpo di spugna ai più suggestivi miracoli del periodo irlandese, alla descrizione dell’invenzione tarantina delle sue reliquie ed alla festa tradizionale del 10 maggio (dies natalis, a quel tempo ormai inteso come dies translationis) dando enfasi alla festa meno antica dell’8 marzo (dies canonizationis). C’è stato però un quasi immediato recupero del racconto leggendario del De Algeritiis, prima sul piano letterario da parte di Giovanni Giovane (1589), quindi su quello culturale, con ulteriori riforme del nuovo ufficio liturgico, già a partire dagli inizi del Seicento. In questo canale tradizionale si situano gli altri storici locali dello stesso secolo (fratelli Morone, Morelli, Merodio), finchè nel 1680, da Anversa, il bollandista Henschen attaccò duramente sugli Acta Sanctorum la ormai troppo dilatata leggenda agiografica di san Cataldo, negando in particolare la pretesa origine irlandese del personaggio ed il suo pellegrinaggio in Terra santa. Una nuova critica al racconto tradizionale cataldiano, peraltro solo parziale ed assai sfumata, ci fu a Taranto agli inizi del Settecento da parte di un anticonvenzionale canonico della locale cattedrale, il Cassinelli, ma è solo nel 1771 – siamo in pieno secolo dei Lumi – che l’umanista Cataldantonio Carducci, accettando l’invito dei Bollandisti, scese in campo e senza mezzi termini parlò di falso agiografico: ne nacque un’accesa querelle con il clero locale più tradizionalista, mentre l’arcivescovo del tempo, il giansenista Giuseppe Capecelatro, azzerava l’ufficio liturgico del santo patrono, risparmiando l’origine irlandese di Cataldo e puntando sui dati oggettivi cataldiani del sarcofago e della crocetta aurea denominativa. Nella seconda metà dell’Ottocento è dato osservare un nuovo tentativo da parte degli studiosi irlandesi di identificare il santo vescovo tarantino, dopo avergli cambiato il nome in Cahal o Cathal of Lismore, che abbiamo visto senza riscontri sul piano filologico – e, nell’ultimo scorcio del secolo, il recupero da parte dell’ufficio liturgico tarantino della biografia cataldiana espunta dopo il Concilio di Trento. Agli inizi del nostro secolo, specialmente sotto la spinta degli studi condotti a Taranto dall’arcidiacono Giuseppe Blandamura, c’è stato un revival dell’episcopato irlandese di san Cataldo, che è stato a lungo supportato dall’analisi paleografica delle scritte incise su crocetta aurea del santo patrono cittadino (Stornaiolo, 1915) e che sembravano in favore della diocesi di Rachau, che peraltro non è stata mai individuata in Irlanda. Succesive indagini (Carducci 1979) hanno però dimostrato che le scritte latine del verso dell’oggetto aureo sono apocrife, in quanto incise solo nel corso del XVII secolo, e che la crocetta non è del tipo benedizionale, come ipotizzato da alcuni, ma che apparteneva ad uno spillone funerario cruciforme in lamina d’oro, più tardi spezzato, proveniente dal corredo tombale del santo vescovo (Carducci 1992). Inizialmente priva di iscrizioni, sul recto della crocetta aurea è comparsa la scritta Cataldus probabilmente in occasione della prima traslazione delle reliquie, al fine di fissare la tradizione onomastica orale ed autenticare le ossa. Premesso che le crocette in lamina metallica furono una caratteristica peculiare della cultura longobarda – che ne abusò, tanto da cucirle come ornamento sui vestiti – l’ipotesi che san Cataldo sia stato un antico vescovo tarantino appare ancora più pregnante, mentre l’evenienza che lo stesso sia venuto dalla lontana e mitica Hibernia, “Insula Sanctorum” per definizione, si fa più evanenscente, anche se ancora capace di mantenere un clima di indeterminatezza nella figura storica del santo patrono tarantino.
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ultimo aggiornamento 08/07/2019 Copyright © MMVI - MMXIX www.san-cataldo.com
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