Note a margine
della leggenda agiografica di San Cataldo, patrono di Taranto
di Giuseppe Febbraro

Note:
©Giuseppe Febbraro 2002. Tutti i diritti riservati. Edizione
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dell'opera in ogni forma e modo, originale o derivato.
"Con un
procedimento regressivo, la percezione e l’identificazione di certi
prodigi fisiologici, come lo stato di buona conservazione di un
cadavere dopo un’inumazione prolungata, bastavano a suscitare, in
chi ne era testimone, una reazione di venerazione e la nascita di
una fama di santità che poteva dare origine a un vero e proprio
culto. Anziché
scandalizzarsi davanti a questi santi che non sono mai esistiti,
conviene piuttosto ammirare la coerenza di un modello antropologico
nel quale il significante non era nettamente distinto dal
significato".
Così André Vauchez
nel suo più recente lavoro[1].
Il passaggio può costituire un ottimo punto di partenza per queste
note a margine della leggenda agiografica di San Cataldo vescovo di
Taranto, leggenda molto dibattuta, sulla quale però gli studi
migliori risultano ormai datati[2].
Appare ormai assodato che elementi topici delle vitae, delle
inventiones e translationes, e delle leggende ad esse correlate
diffuse nell’Occidente cristiano nel periodo compreso tra il IX e il
XII secolo, coesistono nella letteratura sorreggente questo culto,
che può in un certo senso intendersi paradigmatica del genere cui
appartiene. Ulteriori approfondimenti occorrerebbero semmai
all’indagine storica oltre che a quella puramente filologica.
Se è vero, infatti,
che le ricerche degli ultimi decenni - quasi tutte di carattere
locale - hanno chiarito incongruenze e incertezze con le quali gli
scrittori religiosi di età moderna e contemporanea non avevano mai
fatto i conti, a volte addirittura aumentandole, è da riconoscere
anche che nessuno ha compiuto ancora il passo in avanti decisivo per
comprendere in quale contesto politico, sociale, economico, la
leggenda del santo patrono tarantino - così come diffusa e a
tutt’oggi accettata - si collocasse all’atto della sua nascita.
E’ noto infatti che
quelle agiografiche sono preziose fonti storiche oltre che
letterarie e puramente religiose, e un’indagine che manchi di tale
prospettiva risulta fatalmente incompleta[3].
Nessuno scandalo, consiglia dunque Vauchez, di fronte ai santi "che
non sono mai esistiti". E Cataldo è appunto un santo "che non è mai
esistito". Di questo culto continua a suscitare invece interesse
l’aderenza, sì, ad un modello antropologico, ma soprattutto ad una
funzione strumentale altrettanto importante nell’epoca in cui esso è
sorto.
Partiamo dalle
origini. Il più antico ufficio conosciuto sul santo è il Sermo de
inventione corporis Sancti Kataldi, saggio trascritto nel 1174 in un
codice del monastero benedettino di San Severino, a Napoli. Studiato
per la prima volta dall’Hofmaister
[4]
, rivela che l’inventio del corpo di
un santo, definito patrono di Taranto, fu effettuata dal monaco
longobardo Atenulfus poco fuori le mura della città, e che le
reliquie vi furono da questi immediatamente portate all’interno «per
sottrarle ai Normanni» che la stavano assediando, vincendo
l’ostilità del vescovo a questa operazione. Inizialmente riposte
nella chiesa di San Biagio, le spoglie di quest’uomo evidentemente
noto ai tarantini dell’epoca, ma di cui non si hanno altre notizie,
furono poi spostate nella Cattedrale fatta costruire appositamente
in luogo altro da quella altomedievale di Santa Maria. Se ne ricava
che il culto tributato a Cataldo è nato nella Taranto prenormanna,
posta politicamente sotto il dominio bizantino ma etnicamente e
religiosamente composita.
L’elemento longobardo
presente nel Sermo, e la sua datazione, hanno fatto pensare ad
alcuni che il corpo rinvenuto potesse a sua volta essere quello di
un monaco, forse un Gaidoaldus, o di un vescovo ritenuti santi,
presenze protettive delle quali la comunità tarantina aveva
evidentemente bisogno in quel momento. Ma non vi è nulla di certo.
Ricordiamo che al
termine inventio si possono dare due significati. Uno "tecnico": per
inventio cioè si intende, nel linguaggio degli agiografi a partire
dall’alto medioevo, il ritrovamento - casuale o voluto, ma quasi
sempre casuale - del corpo (o di parti del corpo) di un uomo
ritenuto santo in vita o manifestatosi tale proprio all’atto del
rinvenimento, con miracoli e prodigi di vario genere. La seconda
interpretazione è più ampia, e ci soccorre qui ancora Vauchez:
"L’intervento del santo provoca (nella comunità che ne è
interessata, nda) una reazione di esultanza: i debiti vengono
cancellati, gli esiliati possono tornare in patria, il ciclo
infernale delle vendette si interrompe [...] Sembra che possa
aprirsi una fase nuova per la collettività, almeno fino a che essa
resterà fedele a colui che ha scelto come suo patrono nel senso
pieno del termine"[5].
Ciò vale tanto per il
santo vivo, che manifesta la sua potenza ad esempio con un miracolo,
che per quello morto, il cui corpo - proprio perché fattosi reliquia
- sprigiona ancora di più la potenza che detiene, meglio se invocato
e venerato.
Il santo ha dunque da
vivo la capacità di ristrutturare una comunità, da morto il compito
di proteggerla. E non è detto che il luogo sul quale ha esercitato
le proprie virtù in vita sia lo stesso sul quale vigila dopo il dies
natalis.
Torniamo a Taranto.
La vicenda agiografica di Cataldo proseguirebbe per logica qualche
decennio dopo la prima tappa, quella narrata dal Sermo. Secondo
l’ufficio accolto, pur con riserva, dai Bollandisti[6]
(che non erano a conoscenza del Sermo, la cui scoperta è come detto
più recente), l’inventio sarebbe avvenuta nel 1071, a destini
politici della città completamente mutati: occupata dai Normanni nel
1063, Taranto è ora sotto il dominio di Goffredo, figlio di
Gauffredus di Trani[7],
e la diocesi è presieduta dall’arcivescovo, pure normanno, Drogone.
Il contenuto della nuova leggenda, che i Bollandisti riprendono da
un non meglio identificato Berlingerio, è modellato sul cliché della
prima. Ma i ruoli sono cambiati: il rinvenimento del corpo avviene
ora casualmente nel cantiere aperto dal prelato normanno per
costruire una nuova cattedrale, da una crocetta opistografa annessa
si comprende trattarsi di un Cataldo, le spoglie - per evitare ogni
contatto con i sacrileghi presenti in città - vengono poste nella
chiesa madre (dietro comando del vescovo, che nella prima versione
si opponeva alla traslatio).
Il racconto di
Berlingerio trae a sua volta probabilmente origine da un corpus
riunitosi in un periodo non meglio definito ma di certo non
anteriore al sec. XIV[8],
corrottosi e dilatatosi al massimo verso il sec. XVI, e
rintracciabile nei diversi scritti di età moderna[9].
Esso prende le mosse dall’ipotesi petrina sulla fondazione della
Chiesa di Taranto, secondo un cliché diffuso in varie diocesi della
penisola[10]:
San Pietro, in viaggio da Antiochia verso Roma attorno all’anno 42,
si sarebbe fermato in città, trovandola preda del paganesimo.
Operati taluni miracoli, guarì dal mutismo un povero ortolano di
nome Amasiano, lo indottrinò con lo spirito santo e lo creò primo
vescovo della nuova diocesi. La quale ebbe vita regolare per alcuni
secoli, sino a ridursi progressivamente, quindi a crollare, sotto i
colpi delle ripetute invasioni barbariche.
A questo punto entra
in scena Cataldo: nel VI (o VII) secolo, proveniente da un
pellegrinaggio in Terrasanta, giunge sulle coste salentine un monaco
che subito si distingue con ripetuti miracoli tra le genti del
luogo, e si dirige poco dopo a Taranto. Trovandola preda del
paganesimo esattamente come era capitato a San Pietro[11],
e sulle tracce dell’apostolo rifondandone la Chiesa. L’arrivo di
Cataldo sarebbe un segno divino, voluto dall’alto: egli è stato
mandato direttamente dal Signore per rievangelizzare la città[12].
Cataldo arriva
dall’Irlanda. E’ un monaco, ha presieduto una diocesi con dignità
arcivescovile e, come molti suoi conterranei in età altomedievale,
arrivato ad un certo punto della vita ha deciso di completare il
proprio percorso spirituale con la visita dei luoghi santi e di
Gerusalemme. Poi, una volta lì e desideroso di darsi a vita
eremitale, giunge la chiamata di Dio che lo porta a Taranto. Là è
venerato dal popolo, muore e viene sepolto in luogo sicuro, e a
questo punto il cerchio si chiude e la leggenda torna al punto dal
quale era iniziata, con il rinvenimento del corpo nel 1071.
Il racconto, accolto
dalla Chiesa tarantina ancora oggi, non ha in realtà fondamenti
storici. E’ pur vero che la veridicità, e talvolta l’autenticità,
sono come già detto requisiti relativi di una fonte agiografica. Ma
ancora nel XX secolo diverse indagini sono state effettuate per
accertare i dettagli della narrazione: nel 1913, ad esempio,
l’arcivescovo tarantino Giuseppe Cecchini fece redigere a Mons.
Giuseppe Blandamura otto quesiti, relativi ad altrettanti punti
oscuri, da trasmettere al vescovo di Waterford e Lismore Mons.
Sheehan. Il prelato cercava evidentemente riscontri fondanti in
almeno alcune parti del corpus leggendario, ma il tentativo si
rivelò inutile: nella sua risposta, lo Sheehan ammetteva non
soltanto che in Irlanda non era reperibile alcuna notizia su
Cataldo, ma che addirittura tutto ciò che se ne sapeva era desunto
ex fontibus Italicis[13]
. Va segnalato inoltre che tra alcuni degli scrittori di età moderna[14]è
circolata per lunghissimo tempo una seconda versione della leggenda,
secondo la quale la venuta di Cataldo sarebbe databile al II secolo,
più precisamente all’anno 166[15].
I parametri sono però i medesimi della prima narrazione,
completamente ricalcati sulle azioni attribuite a San Pietro, e lo
studio della crocetta presumibilmente rinvenuta nel sepolcro del
Santo nel 1071, ha ristabilito definitivamente la datazione al
VI-VII secolo[16].
I dati di fronte ai
quali ci troviamo sono quindi: una leggenda agiografica che non ha
effettivi riscontri storici; la rielaborazione di un racconto
preesistente, ma con protagonisti differenti; il racconto di una
"doppia evangelizzazione" di Taranto; la trasformazione di un uomo
di origine incerta (longobardo?) in un personaggio di origine
irlandese, del quale si ricostruisce una biografia precisa. Di
conseguenza, è da qui che si deve far partire una riflessione sulla
sua funzione.
La biografia
cataldiana non ha precisi riscontri storici, essi sono al limite
solo ipotizzabili[17].
Il dato è tutt’altro che strano: per la sua stessa natura di
racconto al limite del naturale e del reale, la leggenda agiografica
medievale è di per sé spesso inventata o magari rielaborata su altri
copioni. Al limite, è proprio questo il punto più interessante:
stabilita le preesistenza di un culto di probabile origine rurale
(il Sermo studiato dall’Hofmaister pare condurre indiscutibilmente
in questa direzione) e ammesso che la Chiesa romana - allineata sin
dall’XI secolo alla monarchia normanna - lo abbia fatto proprio
anche con un capovolgimento delle parti originarie, appare evidente
la funzione strumentale dell’iniziativa. Il dato della doppia
evangelizzazione e quello dell’ipotesi irlandese sui natali del
santo danno in qualche maniera conferma di questa tesi.
In entrambe le
versioni temporali esaminate prima, Cataldo giunge a Taranto per
volere divino, nella città pagana, o meglio dove la Chiesa c’era ma
era andata in rovina per colpa di chi ne occupava il territorio
(genericamente, i barbari), e dunque si rendeva necessaria una sua
rifondazione. La metafora potrebbe essere rivolta contro il dominio
bizantino antecedente: si tenga presente che l’occupazione normanna
di Taranto è di poco posteriore allo scisma di Michele Cerulario
(1054), che la Chiesa romana è in quel momento in fase di
riconquista anche “mentale” oltre che politica ed economica del
Mezzogiorno continentale ed insulare[18],
che questo sforzo di riassestamento è diretto indubbiamente in
primis contro i musulmani di Sicilia, ma che immediatamente accanto
c’è una lotta antibizantina e insieme antiortodossa nelle regioni
meridionali d’Italia. Si consideri inoltre che, se la diocesi
tarantina fu nei secoli di dominio greco una tra le più “tranquille”
del meridione, ben riuscendo a convivere con una diffusa fedeltà al
culto latino, episodi che portano nella direzione detta sono
rintracciabili anche prima del secolo XI[19].
A questo si aggiunga l’innalzamento a rango arcivescovile della
stessa diocesi proprio all’alba dell’occupazione normanna.
Un quadro, parrebbe,
di offensiva generale, più anticostantinopolitana che antibizantina,
dettata dalle nuove urgenze politiche più che da una convivenza
Diocesi greca-Culto latino che tutto lascia presumere non ancora
fattasi impossibile[20].
L’irruzione di un culto che da un lato ne capovolgeva uno anteriore,
con i bizantini ancora dominatori, dall’altro creava il concetto
della fine di un sistema religioso e dell’apertura di uno nuovo,
quello della “vera fede”, della rigenerazione morale (come avveniva
in Sicilia nei confronti dei musulmani), sta a testimoniare
l’importanza tributata all’aspetto ideologico (religioso) oltre che
a quello “delle armi” dai nuovi signori: i Normanni, ma anche la
Chiesa riformata. In questo, per giunta, facendo propria la lezione
degli stessi bizantini e del loro concetto “sacrale” del potere[21].
Alcuni episodi
successivi della storia della leggenda potrebbero confermare queste
linee guida: come la profezia antiebraica attribuita a Cataldo a
partire dal sec. XV[22]
e diffusa in chiave antimonarchica nel Regno di Napoli, ma come
anche una certa iconografia: per esempio, il dipinto di Giovanni e
Stefano Caramia datato 1675 e visibile all’interno della cattedrale
di Taranto, che oltre a testimoniare la volontà – già in età moderna
– di fondere in un unico corpus le due versioni temporali della
leggenda, potrebbe essere interpretato come un simbolo deciso di
potenza della Chiesa romana in anni di controriforma[23].
Quanto alla questione
della pretesa origine irlandese di Cataldo, stabilito che essa non
ha alcun fondamento storico[24],
resterebbe da chiarire per quale motivo abbia avuto una parte così
importante nella diffusione del culto. Gli studiosi che più
recentemente hanno affrontato il tema, hanno interpretato l’elemento
in chiave ideale: poiché l’Irlanda ha rappresentato per secoli
l’insula sanctorum per eccellenza, farne la terra di origine di
Cataldo serviva probabilmente a dare maggiore consistenza
all’ipotesi di santità del corpo le cui reliquie si veneravano.
Ipotesi fondata, ma che merita un approfondimento.
Se è vero infatti che
in età moderna, l’epoca in cui sono fioriti i principali scritti del
corpus agiografico cataldiano, era diffuso il mito dell’Hibernia
custode e protettrice delle memorie cristiane dagli attacchi
barbarici per tutto il primo medioevo, alcuni studiosi hanno da
tempo dato avvio ad un processo di ridimensionamento del fenomeno[25]:
si è chiarito ad esempio che quello del missionariato irlandese fu
un vero e proprio progetto, preparato ed organizzato all’interno dei
monasteri dell’isola, e che l’aspetto religioso del fenomeno agì
separatamente da quello eminentemente “culturale”. La tradizione dei
monaci irlandesi di formarsi spiritualmente in patria per poi
irradiare la propria opera pastorale nel continente e spingersi fino
in Terrasanta era intesa come un vero e proprio apostolato.
Considerando però i principali passaggi nelle diverse versioni della
vita di Cataldo, si notano alcune costanti: tra gli autori anteriori
al XVI secolo (su tutti, Pietro Calo da Chioggia), come in quelli
moderni, successivi alla versione del De Algeritiis (1555), si dà
per certo che Cataldo sarebbe stato monaco, si sarebbe formato nel
famoso centro spirituale di Lismore, e successivamente (in seguito,
anzi, ad eventi miracolosi) fosse stato creato arcivescovo di una
diocesi tanto grande da richiedere un difficile lavoro di
amministrazione. Dopodiché avrebbe lasciato l’Irlanda per il suo
destino e per quello di Taranto.
Insomma, i dettagli
delle gesta del santo in Irlanda sono troppo analoghi a quelli delle
opere compiute in riva allo Jonio per essere casuali. Si ha quindi
l’impressione che anche questo inserto non sia un semplice elemento
aggiuntivo all’immaginario complessivo, ma vada interpretato come
organico alla funzione, che si è cercato di chiarire, del corpus.
Concludendo,
nell’accettare la lezione proposta nei migliori studi
sull’argomento, a partire dall’ipotesi di Carducci (culto rurale -
di natura probabilmente orale - di età longobardo-bizantina che
subisce un riuso a partire dall’età normanna, esclusione
dell’origine irlandese di questo personaggio la cui identificazione
più logica propende per un vescovo locale vissuto in età compresa
tra i secoli IX e XI[26]),
la nuova strada da percorrere per una storia del culto cataldiano
(storia di non poca importanza, se si considerano le larghissime
ramificazioni geografiche della sua diffusione, qui non analizzate)
è quella di renderla parte della storia della città, delle sue
istituzioni civili e della sua popolazione oltre che della sua
Chiesa, di leggerne il complesso apparato delle fonti come preziosa
testimonianza storica oltre che religiosa e ampliare il raggio della
sua non facile interpretazione.
[1]
André Vauchez, Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel
medioevo, Il Mulino, Bologna 2001, pag. 30.
[2]
A tutt’oggi gli studi
più esaurienti continuano ad essere quelli di Alberto Carducci, in
particolare il saggio La cripta e la leggenda agiografica di San
Cataldo, in La cripta della Cattedrale di Taranto, Taranto 1986.
[3]
Paolo Delogu, che le
inserisce tra le fonti scritte per lo studio del medioevo, afferma:
“Tutta questa produzione è spesso a metà strada tra la testimonianza
storica e la leggenda, ma deve proprio a questa caratteristica la
sua importanza, perché anche quando non fornisce notizie positive
sulle biografie dei santi storici, testimonia comunque gli
atteggiamenti sociali nei confronti della santità, e dà quindi
essenziali informazioni sulla religiosità e la mentalità collettiva,
spesso aprendo squarci sulla cultura di ceti sociali che non hanno
lasciato tracce in altri tipi di fonte”. Introduzione allo studio
della storia medievale, Bologna 1994, pag. 106.
[4]
A. Hofmaister, Der
Sermo de inventione Sancti Kataldi. Zur Geschicte Tarents am Ende
des 11. Jahr, in “Muenchener Museum”, IV, 1924, pagg. 101 - 114
[5]
Vauchez, Santi,
profeti e visionari, cit., pag. 27.
[6]
Historia Inventionis
et Translationis Corporis B.Cataldi Auctore Berlingerio Tarantino et
forsan aliis, Acta Sanctorum, X, Maii XV, pagg. 570 –575, Anversa
1680.
[7]
(…) “Mense aprili
mortuus est Gauffredus comes, et Goffridus filius eius cepit
Tarentum”, Breve Chronicon Northmannicum, in Rerum Italicarum
Scriptores, t. V, Milano 1723-1728.
[8]
Cfr. A. Carducci, La
cripta e la leggenda agiografica, cit.
[9]
Ultimi a riprenderlo
senza approcci critici sono stati tra gli altri D. L. De Vincentiis,
Storia di Taranto, Taranto 1878; G. Baffi, Ricerche sul fondatore
della cattedra episcopale a Taranto, Taranto 1880; A. Tommasini, I
santi irlandesi in Italia, Milano 1932.
[10]
Cfr. Lanzoni F., Le
Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an.
604), Faenza 1927.
[11]
"(...) ut ad partem
Italiae se transferret in civitate quae Tarentum vulgariter
nominatur, et incultum olim populum et idolis deditum, per Petrum
apostulum et Marcum eius discipulum conversum ad Christianae fidei
veritatem, et iterum erroribus pristinis implicatum, reduceret ad
chatolicae fidei firmitatem”. Acta Sanctorum, cit., pagg. 576 segg.
[12]
“(…) devote orante
apparuit Dominus Jesus Christus et ab eremitico proposito
revocavit”. Ibidem.
[13]
Fonseca C.D.,
La Chiesa di Taranto dal dominio bizantino all’avvento dei Normanni,
in La Chiesa di Taranto.
Studi storici in onore di Mons. Guglielmo Motolese,
Galatina 1977, pagg. 17-20.
[14]
Ughelli F., Italia
Sacra, IX, Venezia 1721; Giovine G., De antiquitate et varia
Tarentinorum fortuna, in Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum,
Napoli 1735. E raccolta inoltre in Bibliotheca Hagiographica Latina,
6679, Bruxelles 1898-1899.
[15]
“Igitur Cataldus
iter arripuit, ingressusque Tarentum est anno a partu Virginis
sexagesimo sexsto supra centesimum, Aniceto Summo Pontefice et Marco
Aurelio Imperatore”, Ughelli cit., pag. 121.
[16]
Su questo punto cfr.
Stornajolo C., Crocetta aurea opistografa della Cattedrale di
Taranto, in Blandamura G., Un cimelio del sec. VII esistente nel
Duomo di Taranto, Lecce 1917, e lo stesso Carducci A., La cripta e
la leggenda agiografica, cit.
[17]
La Bibliotheca
Sanctorum, ad esempio, accetta l’ipotesi dell’origine irlandese
dell’uomo. Ma non riesce a dare spiegazioni sulla presunta dignità
arcivescovile. Anche quando si tentano spiegazioni logiche, emergono
contraddizioni il più delle volte insanabili. Cfr. Barsali I.B. e
Carata G., San Cataldo, in Bibliotheca Sanctorum, III, c.I, Roma
1963, cc. 950-51.
[18]
Cfr. da ultimo
D’Alessandro V., Il ruolo economico e sociale della Chiesa in
Sicilia dalla rinascita normanna all’età aragonese, in Gli spazi
economici della Chiesa nell’occidente mediterraneo (secoli XII –
metà XIV), Atti del Sedicesimo Convegno Internazionale del Centro
Italiano di Studi di Storia ed Arte (Pistoia, 16-19 maggio 1997),
Pistoia 1999.
[19]
Nel sec. IX è
attestato il fallimento, per intervento diretto di papa Stefano V,
del tentativo di insediare un arcivescovo greco in città: cfr.
Porsia F.-Scionti M., Taranto, in Le città nella storia d’Italia,
Bari 1989, pag. 29 e n. 42.
Dei primi anni
del sec. XI è l’insediamento di una comunità benedettina in
un’abbazia appena fuori dalle mura, segno tangibile della spinta
originata da Roma e diretta oltre i confini del Catapanato. Nessuna
opposizione particolare, peraltro, pare giungesse dal vescovo del
momento, Dionigi: cfr. Mor C.G., La lotta fra la Chiesa greca e la
Chiesa romana in Puglia nel sec.
X, in “Archivio Storico Pugliese”, 1959, pagg. 59-64,
e Falkenhausen V., Taranto in epoca bizantina, in “Studi Medievali”,
IX, 1968, pagg. 133-166 e n. 157.
[20]
Mor C.G., La lotta,
cit.
[21]
Come acutamente
sottolineava Guillou A., Longobardi, Bizantini e Normanni
nell’Italia meridionale: continuità o frattura?, in Il passaggio dal
dominio bizantino allo stato normanno, Atti del Secondo Convegno
Internazionale di Studi, a cura di C.D. Fonseca, Taranto 1977, pagg.
23-61.
[22]
Tognetti G., Le
fortune della pretesa profezia di San Cataldo, in “Bollettino
dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio
Muratoriano”, 80, 1968, pagg. 273-314.
[23]
San Cataldo
vi è rappresentato al momento del suo ingresso nella città, vestito
da arcivescovo (dunque, immediatamente identificabile in uomo di
Chiesa), accompagnato da altri santi (Leucio, Barsanofio e forse
Donato) facilmente riconoscibili dalle genti di tutto il Salento,
colto in un atto miracoloso (la restituzione della vista ad un cieco),
e con tutto l’apparato immaginifico del caso: le potenze della
natura che si scatenano, il cielo in tumulto, l’antica statua del
Dio Sole che crolla, come narrato sia nella leggenda petrina che
nella versione più antica di quella stessa cataldiana.
Cfr. Porsia F.-Scionti M.,
Taranto, cit. e nota a pag. 31.
[24]
Cfr. per ogni
dettaglio ancora Carducci, La cripta e la leggenda agiografica, cit.
[25]
Vale su tutti ancora
Coccia E., La cultura irlandese precarolingia: miracolo o mito?, in
“Studi Medievali”, serie III, VIII, 1967.
[26]
Per un riassunto
breve ma esaustivo di queste ipotesi cfr. anche De Luca P., La
Cattedrale di San Cataldo, Taranto 1997, pagg. 67-73.

Bibliografia
Fonti
-
Acta Sanctorum,
X, Maii XV, Anversa 1680
-
Bibliotheca
Hagiographica Latina, Bruxelles 1898-1899
-
Breve Chronicon
Northmannicum, in Rerum Italicarum Scriptores, t. V, Milano
1723-1728
-
Letteratura
-
Baffi G.,
Ricerche sul fondatore della cattedra episcopale a Taranto,
Taranto 1880
-
Barsali I.B. e
Carata G., San Cataldo, in Bibliotheca Sanctorum, III, c.I, Roma
1963, cc. 950-951
-
Carducci A., La
cripta e la leggenda agiografica di San Cataldo, in La cripta
della Cattedrale di Taranto, Taranto 1986
-
Coccia E., La
cultura irlandese precarolingia: miracolo o mito?, in “Studi
Medievali”, serie III, VIII, 1967
-
D’Alessandro V.,
Il ruolo economico e sociale della Chiesa in Sicilia dalla
rinascita normanna all’età aragonese, in Gli spazi economici
della Chiesa nell’occidente mediterraneo (secoli XII – metà
XIV), Atti del Sedicesimo Convegno Internazionale del Centro
Italiano di Studi di Storia ed Arte (Pistoia, 16-19 maggio
1997), Pistoia 1999
-
De Luca P., La
Cattedrale di San Cataldo, Taranto 1997, pagg. 67-73
-
De Vincentiis
D.L., Storia di Taranto, Taranto 1878
-
Delogu P.,
Introduzione allo studio della storia medievale, Bologna 1994
-
Falkenhausen
V., Taranto in epoca bizantina, in “Studi Medievali”, IX, 1968,
pagg. 133-166
-
Fonseca
C.D., La Chiesa di Taranto dal dominio bizantino all’avvento dei
Normanni, in La Chiesa di Taranto.
Studi storici in onore di
Mons. Guglielmo Motolese, Galatina 1977, pagg. 17-20
-
Giovine G., De
antiquitate et varia Tarentinorum fortuna, in Delectus
scriptorum rerum Neapolitanarum, Napoli 1735
-
Guillou A.,
Longobardi, Bizantini e Normanni nell’Italia meridionale:
continuità o frattura?, in Il passaggio dal dominio bizantino
allo stato normanno, Atti del Secondo Convegno Internazionale di
Studi, a cura di C.D. Fonseca, Taranto 1977, pagg. 23-61
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Hofmaister A.,
Der Sermo de inventione Sancti Kataldi. Zur Geschicte Tarents am
Ende des 11. Jahr, in “Muenchener Museum”, IV, 1924
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Lanzoni F., Le
Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an.
604), Faenza 1927
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La lotta fra la Chiesa greca e la Chiesa romana in Puglia nel
sec. X, in
“Archivio Storico Pugliese”, 1959, pagg. 59-64
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M., Taranto, in Le città nella storia d’Italia, Bari 1989
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Stornajolo C.,
Crocetta aurea opistografa della Cattedrale di Taranto, in
Blandamura G., Un cimelio del sec. VII esistente nel Duomo di
Taranto, Lecce 1917
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fortune della pretesa profezia di San Cataldo, in “Bollettino
dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio
Muratoriano”, 80, 1968, pagg. 273-314
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Tommasini A.,
I santi irlandesi in Italia, Milano 1932
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Ughelli F.,
Italia Sacra, IX, Venezia 1721
-
Vauchez A.,
Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel medioevo, Il
Mulino, Bologna 2001
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